Un giorno mi svegliai e vidi il cancello
della mia galera aperto. Potevo finalmente uscire da quel tetro e oscuro quarto
nel quale da sempre avevo vissuto. Nessuna guardia, nessun rumore solamente io
che fissavo l’ignoto dietro il metallo delle sbarre spalancate. Mi alzai in
piedi a fatica; le mie gambe non avevano mai camminato fuori da quelle quattro
mura; mi spinsi sino al limite, quello che in nessun momento avevo potuto né
osato oltrepassare. Non conoscevo il rischio né la quiete, non sapevo il
significato di nessuna parola, di nessun pensiero, di ogni possibile
espressione non ne portavo che il lontano eco di un’umanità che in me era stata
cancellata. Non avevo idea alcuna della vita, non conoscevo niente altro che
quell’unico colore grigio spento delle pareti ammuffite di quella che era
sempre stata la mia sola casa. Avevo paura anzi, no, ero terrorizzato: cosa
c’era fuori di lì? Perché la porta era aperta? Un inganno forse? Un sogno, può
darsi?
Sporsi la testa fuori, tremavo. Un
corridoio, il solito che osservavo dalla mia cella, adesso mi appariva diverso,
e i miei piedi si mossero oltrepassando la linea di confine, quella che segnava
il tempo e lo divideva tra il prima e il dopo. Camminavo senza sapere dove
stessi andando, un passo davanti all’altro e cresceva in me un’euforia
agghiacciante sconosciuta ai miei sensi. Ricordavo i momenti infiniti passati a
fissare il soffitto, a scorgere l’altra parte del mondo dalla piccola fessura
che permetteva all’aria di entrare; pensavo alle mie giornate senza luce e
senza tenebra, senza gioie e senza sofferenze: pensavo al nulla, all’unica
cosa, ovvero, che avevo dentro da quando nacqui in quella prigione. Pensavo
soprattutto all’insensata ragione per la quale stessi camminando fuori dal mio
unico rifugio: mi spingeva una forza più grande di me, figlia di quei sussurri
che si sentono quando il vento scorre tra le gole delle montagne raccontando di
mondi lontani.
Non conoscevo la luce e l’incontro con essa
fu devastante: alla fine del corridoio mi prese senza preavviso e inondò le mie
pupille dilatate che mai l’avevano affrontata. Fu come la morte, fu come la
nascita, fu come la fine, fu come l’inizio. Un dolore immenso mi attraversò e
cercai di difendermi con tutte le mie forze. Finalmente il vuoto si stava
riempiendo, le desolate lande della mia anima stavano per cambiare ma tutto ciò
procurava un dolore immenso. La fitta nebbia si diradava e prati verdi
iniziavano a cancellare la neutra colorazione spenta e oscura di quel nulla che
avevo dentro. Stavo morendo, quell’essere che conoscevo con il mio nome era
dilaniato, agonizzante, in una pozza di sangue stava gettando l’ultimo respiro.
Lottai contro di essa e contro la paura di perdere tutto anche se quel “tutto”
era il niente. Provai a proteggermi sino all’ultimo ma mi penetrava da ogni
parte, cambiava tutto quello che avevo sempre saputo e mi ritrovavo nudo, inerme,
piccolo, appena nato. E cosi finalmente mi arresi: ero venuto alla luce.
Molti dei miei simili decisero di non uscire
dalle loro galere, restarono dentro le quattro grigie mura e richiusero i
cancelli, in fretta, perdendo l’unica possibilità data loro di nascere. Non so
perché io non abbia fatto come loro, non comprendo perché essi siano rimasti
immobili davanti alla possibilità di vedere al di là del noto ed io invece no.
L’unica cosa che so dopo essere venuto al mondo è che dentro di me esiste una
sola grande causa che spinge le mie azioni quotidiane: ricordare a tutti i
prigionieri che mi capita di incontrare che a tutti viene data la possibilità
di fuggire; e quando anche a te verrà aperta la porta non avere paura di
attraversare la luce, non temere il dolore perché è solo dalle doglie del parto
che si viene realmente al mondo.
Valentino
Paoloni
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