È l’ora delle liberalizzazioni.
Monti e il governo dei tecnici, sostenuto dal parlamento dei mercenari, sta
facendo con diligenza i famosi “compiti a casa” dettati dalla BCE e dall’FMI e
per questo si sprecano le lodi dei liberisti di mezza Europa a cominciare da
Frau Merkel e dalla sua Germania virtuosa. E allora non ci resta che fare i complimenti
al prof. Monti che ha davvero colto nel segno: lo spread cala e le borse
reggono botta anche di fronte ai continui declassamenti delle agenzie di rating.
Finalmente un po’ di respiro! Sì, una boccata di ossigeno per la finanza e
un’ondata di polveri sottili cancerogene per il popolo. Ancora una volta non ci
stiamo capendo niente e dietro al termine “liberalizzazioni”, coniato dal
potere spietato del capitalismo moderno, si cela un insieme di significati e
provvedimenti diversissimi fra di loro ma che hanno tutti uno scopo ben
preciso: privatizzare ogni cosa, anche il tempo della nostra vita, le ore e i
minuti del nostro quotidiano. Di discorsi sulle liberalizzazioni se ne sono
fatti molti: dall’abolizione degli ordini professionali alla deregolamentazione
dell’iniziativa privata ma ci sono differenze profonde fra i concetti.
C’è una grande discrepanza, infatti, tra teorizzare l’abolizione degli
albi professionali e, invece, la possibilità di aprire un negozio anche di
notte per 24 ore al giorno. Per comprendere la necessità di eliminare in fretta
gli ordini professionali basta conoscere le date di quando furono creati gli
ultimi tra questi che, guarda caso, coincidono proprio col ventennio fascista:
nel 1923, subito dopo la marcia su Roma, è nato l’albo degli ingegneri; nel
1928 è stata la volta dei chimici seguiti dai geometri e ai periti industriali
nel 1929. L’albo dei notai e quello dei medici risalgono addirittura all’inizio
del secolo scorso, rispettivamente nascono nel 1913 e nel 1910, portando con se
i retaggi culturali del lungo ‘800. Indro Montanelli parlando del proprio ordine
professionale, quello dei giornalisti, senza mezzi termini e, secondo me, a
ragione affermava che “è da abolire. Non ha alcuna funzione, se non quella
comune a tutti gli ordini professionali: difendere le mafie di interessi
corporativi.” (da “La deriva” di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo).
Per quanto un’eventuale rivoluzione delle professioni corporative sia
auspicabile di certo questo ultimo decreto del governo punta a ben altro e
l’attenzione di un educatore come me si sposta verso la liberalizzazione degli
orari degli esercizi commerciali e, soprattutto, alle devastanti conseguenze
pedagogiche di un provvedimento del genere che, comunque, ben si inserisce
all’interno del credo liberista della concorrenza sfrenata e
dell’individualismo privato.
Nel 2012, infatti, abbiamo meno tempo libero che un secolo fa, e questo
poco e prezioso tempo non dedicato al lavoro lo occupiamo per consumare: ci
svegliamo la mattina presto, andiamo a lavorare, lo facciamo per molto più di
otto ore al giorno e poi ritorniamo a casa, se ce l’abbiamo, e stanchissimi ci
mettiamo sul divano e accendiamo la tv che ci dice come imperativo assoluto di
uscire a comprare e, allora, appena abbiamo del “tempo libero” ecco che lo
occupiamo con questa attività ripetitiva e alienante che adesso si chiama
“shopping”. In un momento di crisi economica questo meccanismo del “ben vivere”
occidentale rischia di arrestarsi e allora come conciliare giornate lavorative
sempre più lunghe e meno pagate con la necessità che i negozi continuino ad
essere affollati? Semplice, liberalizzando gli orari di apertura di questi
ultimi. Compreremo la notte se non potremo farlo di giorno; compreremo la
domenica, cosa che di fatto già accade, se non possiamo farlo durante la
settimana. L’importante è che andiamo a comprare! Inoltre questa intelligente
misura stimola la tanto conclamata concorrenza: facendosi la guerra fra
negozianti della stessa via, giocando a chi resiste più ore sveglio durante la
settimana per tenere aperto, sicuramente i prezzi caleranno e i consumatori
(ben attenti, non “le persone” bensì “i consumatori”) godranno di questa
riduzione e, sicuramente, saranno più felici col portafoglio più pieno.
Siamo alla follia. Più la felicità si misura in punti di PIL e più
distruggiamo la nostra convivenza civile e trasformiamo le nostre città in “non
luoghi” di solitudine e problemi privati. È lo stesso liberismo che ci ha
portato sull’orlo di questo baratro e non sarà mai il principio che potrà
salvarci: urge un cambio di rotta rivoluzionario. Dobbiamo smetterla di
osannare la concorrenza come fosse un dio; siamo sicuri che essa sia utile e
benefica per l’uomo? Competere vuol dire farsi la guerra; significa tentare di
prevaricare il proprio vicino, fregarlo, tentare di essere continuamente più di
lui e meglio di lui verso l’infinito. Certo togliersela dalla testa è un
compito assai difficile perché sin da bambini, nelle scuole, la concorrenza sta
alla base di ogni apprendimento a partire dal sistema dei voti e non solo, le
istituzioni scolastiche occidentali sono costruite appositamente per fare in
modo che la maggioranza delle persone, a scuola, “impari non solo ad accettare
il proprio destino, ma anche il servilismo”(Ivan Illich). Ma un
cambiamento è necessario e lo sforzo è d’obbligo.
Tutto quanto vive in questa Terra lo fa grazie al principio della
cooperazione: dalle api ai grandi mammiferi, dal fiore più piccolo all’albero
più maestoso tutto si basa sulla logica della cooperazione nella quale un
elemento è necessario all’altro per mantenere l’equilibrio della vita. Non è
concepibile che l’uomo, che fa parte di questo sistema naturale, scelga di
basare la propria esistenza sulla concorrenza che è l’opposto di quanto serve
proprio ai fini della vita stessa. Il cambiamento di rotta deve portarci verso
la solidarietà e la cooperazione che sono gli unici strumenti per uscire dalla
solitudine del mondo privatizzato e per aumentare i punti di felicità invece
che i punti di PIL. Sono consapevole della “devianza” che questi ragionamenti
rappresentano ma, come afferma il filosofo Edgar Morin, che ammiro
profondamente, l’inizio di ogni cambiamento non può che essere necessariamente
deviante.
Valentino Paoloni
29 / 01 / 2012
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