domenica 24 marzo 2013

UN ANNO FA: Liberalizzazione del quotidiano: lavoreremo di giorno e consumeremo di notte



È l’ora delle liberalizzazioni. Monti e il governo dei tecnici, sostenuto dal parlamento dei mercenari, sta facendo con diligenza i famosi “compiti a casa” dettati dalla BCE e dall’FMI e per questo si sprecano le lodi dei liberisti di mezza Europa a cominciare da Frau Merkel e dalla sua Germania virtuosa. E allora non ci resta che fare i complimenti al prof. Monti che ha davvero colto nel segno: lo spread cala e le borse reggono botta anche di fronte ai continui declassamenti delle agenzie di rating. Finalmente un po’ di respiro! Sì, una boccata di ossigeno per la finanza e un’ondata di polveri sottili cancerogene per il popolo. Ancora una volta non ci stiamo capendo niente e dietro al termine “liberalizzazioni”, coniato dal potere spietato del capitalismo moderno, si cela un insieme di significati e provvedimenti diversissimi fra di loro ma che hanno tutti uno scopo ben preciso: privatizzare ogni cosa, anche il tempo della nostra vita, le ore e i minuti del nostro quotidiano. Di discorsi sulle liberalizzazioni se ne sono fatti molti: dall’abolizione degli ordini professionali alla deregolamentazione dell’iniziativa privata ma ci sono differenze profonde fra i concetti.
   C’è una grande discrepanza, infatti, tra teorizzare l’abolizione degli albi professionali e, invece, la possibilità di aprire un negozio anche di notte per 24 ore al giorno. Per comprendere la necessità di eliminare in fretta gli ordini professionali basta conoscere le date di quando furono creati gli ultimi tra questi che, guarda caso, coincidono proprio col ventennio fascista: nel 1923, subito dopo la marcia su Roma, è nato l’albo degli ingegneri; nel 1928 è stata la volta dei chimici seguiti dai geometri e ai periti industriali nel 1929. L’albo dei notai e quello dei medici risalgono addirittura all’inizio del secolo scorso, rispettivamente nascono nel 1913 e nel 1910, portando con se i retaggi culturali del lungo ‘800. Indro Montanelli parlando del proprio ordine professionale, quello dei giornalisti, senza mezzi termini e, secondo me, a ragione affermava che “è da abolire. Non ha alcuna funzione, se non quella comune a tutti gli ordini professionali: difendere le mafie di interessi corporativi.” (da “La deriva” di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo).
   Per quanto un’eventuale rivoluzione delle professioni corporative sia auspicabile di certo questo ultimo decreto del governo punta a ben altro e l’attenzione di un educatore come me si sposta verso la liberalizzazione degli orari degli esercizi commerciali e, soprattutto, alle devastanti conseguenze pedagogiche di un provvedimento del genere che, comunque, ben si inserisce all’interno del credo liberista della concorrenza sfrenata e dell’individualismo privato.
   Nel 2012, infatti, abbiamo meno tempo libero che un secolo fa, e questo poco e prezioso tempo non dedicato al lavoro lo occupiamo per consumare: ci svegliamo la mattina presto, andiamo a lavorare, lo facciamo per molto più di otto ore al giorno e poi ritorniamo a casa, se ce l’abbiamo, e stanchissimi ci mettiamo sul divano e accendiamo la tv che ci dice come imperativo assoluto di uscire a comprare e, allora, appena abbiamo del “tempo libero” ecco che lo occupiamo con questa attività ripetitiva e alienante che adesso si chiama “shopping”. In un momento di crisi economica questo meccanismo del “ben vivere” occidentale rischia di arrestarsi e allora come conciliare giornate lavorative sempre più lunghe e meno pagate con la necessità che i negozi continuino ad essere affollati? Semplice, liberalizzando gli orari di apertura di questi ultimi. Compreremo la notte se non potremo farlo di giorno; compreremo la domenica, cosa che di fatto già accade, se non possiamo farlo durante la settimana. L’importante è che andiamo a comprare! Inoltre questa intelligente misura stimola la tanto conclamata concorrenza: facendosi la guerra fra negozianti della stessa via, giocando a chi resiste più ore sveglio durante la settimana per tenere aperto, sicuramente i prezzi caleranno e i consumatori (ben attenti, non “le persone” bensì “i consumatori”) godranno di questa riduzione e, sicuramente, saranno più felici col portafoglio più pieno.
   Siamo alla follia. Più la felicità si misura in punti di PIL e più distruggiamo la nostra convivenza civile e trasformiamo le nostre città in “non luoghi” di solitudine e problemi privati. È lo stesso liberismo che ci ha portato sull’orlo di questo baratro e non sarà mai il principio che potrà salvarci: urge un cambio di rotta rivoluzionario. Dobbiamo smetterla di osannare la concorrenza come fosse un dio; siamo sicuri che essa sia utile e benefica per l’uomo? Competere vuol dire farsi la guerra; significa tentare di prevaricare il proprio vicino, fregarlo, tentare di essere continuamente più di lui e meglio di lui verso l’infinito. Certo togliersela dalla testa è un compito assai difficile perché sin da bambini, nelle scuole, la concorrenza sta alla base di ogni apprendimento a partire dal sistema dei voti e non solo, le istituzioni scolastiche occidentali sono costruite appositamente per fare in modo che la maggioranza delle persone, a scuola, “impari non solo ad accettare il proprio destino, ma anche il servilismo”(Ivan Illich). Ma un cambiamento è necessario e lo sforzo è d’obbligo.
   Tutto quanto vive in questa Terra lo fa grazie al principio della cooperazione: dalle api ai grandi mammiferi, dal fiore più piccolo all’albero più maestoso tutto si basa sulla logica della cooperazione nella quale un elemento è necessario all’altro per mantenere l’equilibrio della vita. Non è concepibile che l’uomo, che fa parte di questo sistema naturale, scelga di basare la propria esistenza sulla concorrenza che è l’opposto di quanto serve proprio ai fini della vita stessa. Il cambiamento di rotta deve portarci verso la solidarietà e la cooperazione che sono gli unici strumenti per uscire dalla solitudine del mondo privatizzato e per aumentare i punti di felicità invece che i punti di PIL. Sono consapevole della “devianza” che questi ragionamenti rappresentano ma, come afferma il filosofo Edgar Morin, che ammiro profondamente, l’inizio di ogni cambiamento non può che essere necessariamente deviante.
Valentino Paoloni


29 / 01 / 2012

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